Il principio espresso dalla Cassazione
Il patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. non è violato dal dirigente che offre le proprie prestazioni lavorative a favore di altra società operante in un settore concorrente rispetto a quello della precedente (nella specie, settore chimico), se la diversità dei prodotti immessi nel mercato da parte delle due società escluda un collegamento con la professionalità e le competenze tecniche acquisite dal dirigente presso la prima società
Il Supremo Collegio precisa che lo scopo delle clausole di non concorrenza è quello di tutelare l’impresa da qualsiasi
esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi ed i processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, cc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato
L’identità del settore tra le due società datrici, quindi, sebbene concerna la produzione di prodotti affini non integra condizione sufficiente a ritenere violato il patto di non concorrenza in assenza della prova dello sfruttamento di quel know how acquisito nel corso della pregressa esperienza lavorativa dal lavoratore e messo a punto nella realizzazione del prodotto della seconda attività.
La previsione contrattuale deve, infatti, avere cura di non comprimere eccessivamente le possibilità del lavoratore di rivolgere le proprie competenze verso altre occupazioni.
Per tale motivo, quindi, le clausole che prevedono il suddetto patto sono valide se subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e se è previsto un corrispettivo adeguato, nella misura in cui non frustino le esigenze del prestatore di lavoro, a cui va assicurato un margine di attività idoneo a procurargli un guadagno adeguato alle esigenze di vita proprie e della famiglia.
La fattispecie esaminata.
La questione di cui viene investito il Supremo Collegio è la seguente.
Un dirigente alle dipendenze di una società operante nel settore chimico stipula un patto di non concorrenza con cui si impegna, dietro corrispettivo, per il periodo di cinque anni successivi alla cessazione del rapporto contrattuale con la stessa società, a non porre in essere attività (anche in termini di contatti e/o consulenze) in favore di terzi concorrenti limitatamente ai prodotti oggetto dell’attività lavorativa della società datrice.
Cessato il rapporto di lavoro con la società, il dirigente stipula un contratto con altro datore di lavoro operante nel medesimo settore chimico. La società per cui presta così servizio si occupa della produzione di prodotti non finali che, per la produzione dei beni finali, risultano equipollenti a quelli frutto dell’attività del precedente datore di lavoro. Quest’ultimo, quindi, conviene in giudizio il dirigente per violazione del patto di non concorrenza.
Nel confermare le decisioni rese dai giudici di merito, la Cassazione ha escluso la violazione del patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 cod. civ. In particolare, ha valorizzato la seguente circostanza:
- nonostante l’affinità dei prodotti finali per i quali sono impiegati,
- i prodotti non finali realizzati dalle due società presentano caratteristiche morfologiche, di stato e di reazione diverse, che rendono differenti i processi produttivi degli stessi prodotti finali.
L’avvocato esperto in diritto del lavoro.
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